PROCESSO AI 25 MANIFESTANTI - Le motivazioni

6. L’atto arbitrario del P.U.

L’atto arbitrario del P.U.

1. L’art. 4 del D. L.vo Lgt. 14/9/1944 n. 288 prevede che le disposizioni degli artt. 336, 337, 338, 339, 341, 342 e 343 del codice penale non trovino applicazione quando il pubblico ufficiale, l’incaricato di pubblico servizio ovvero il pubblico impiegato abbia dato causa al fatto preveduto negli stessi articoli eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni.
Una parte della giurisprudenza (da ultimo vedi Cass. Sez. V 27/10/2006 n. 38952, Izzi) e la dottrina inquadrano la norma di cui sopra fra le cause di giustificazione, una situazione di fatto cioè che giustifica la violazione di una delle norme incriminatici speciali indicate perché esclude il carattere antigiuridico della condotta dell’agente.
Si tratta di un’eccezione al principio di responsabilità penale e come tale deve trovare una puntuale e ristretta applicazione.
Punto centrale è certamente costituito dal concetto di “atto arbitrario” e dalla circostanza che con questo atto il pubblico ufficiale ecceda i “limiti delle proprie attribuzioni”.
Altri elementi della norma, però, rivestono analoga importanza.
Soggetto attivo beneficiario dell’applicazione della scriminante può essere chiunque.
La sua condotta deve porsi in una particolare, stretta e immediata relazione con quella del pubblico ufficiale o soggetto a questo equiparato, deve costituire in altre parole una “reazione” a questa.
Oggetto della scriminante possono essere solo condotte inquadrabili nelle fattispecie di cui agli articoli da 336 a 343 del codice penale, con esclusione di altri e diversi reati per quanto concorrenti o connessi con quelli.

2. Il pubblico ufficiale viene definito dal codice penale (art. 357) come colui che esercita una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa.
Il secondo comma della norma specifica come sia pubblica la funzione amministrativa “disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi”.
Per la giurisprudenza ricopre, tra gli altri, la figura di pubblico ufficiale, il Vigile Urbano, l’appartenente alla Polizia di Stato o il Carabiniere che, nell’ambito di un’attività di carattere amministrativo, può esercitare un potere coercitivo nei confronti dei cittadini ad esempio procedendo all’arresto in flagranza dell’autore di un reato (artt. 380 e 381 c.p.p.), regolando il traffico o sciogliendo una riunione sediziosa o che comunque metta in pericolo l’ordine pubblico (art. 20 e ss. T.U.L.P.S.).
Si tratta dell’esercizio di funzioni espressamente previste e regolate dalla legge, consentito pertanto nei limiti da questa stabiliti.
Il primo requisito oggettivo per l’applicabilità della scriminante in parola è come si è visto che l’atto del pubblico ufficiale ecceda i limiti delle proprie attribuzioni.
Vengono a tal proposito in rilievo tutti i vizi dell’atto amministrativo dall’incompetenza, all’eccesso di potere fino alla violazione di legge.
Poiché il potere di esercitare una funzione pubblica è attribuito dalla legge, il pubblico ufficiale non può valicare i confini di questa attribuzione a pena di un comportamento illegittimo.

3. Dal testo della norma però si ricava che il privato destinatario di un atto illegittimo del pubblico ufficiale non ha solo per questo motivo il diritto di resistere tenendo condotte che violano le norme relative ai delitti dei privati contro la pubblica amministrazione.
L’ordinamento giuridico riconosce la non punibilità di una siffatta, violenta o ingiuriosa, reazione solo nel caso in cui l’atto del pubblico ufficiale oltre ad essere illegittimo, cioè eccedente i limiti delle proprie attribuzioni, sia anche “arbitrario”.
In proposito esistono due distinti orientamenti giurisprudenziali.
Una parte della giurisprudenza interpreta il requisito dell’arbitrarietà dell’atto come connotazione soggettiva della condotta del P.U. il quale deve agire con la “consapevolezza” dell’illegittimità del proprio operato che risulta causato da motivi di rancore, astio o particolare malignità nei confronti del privato cittadino oppure viene accompagnato da modalità non consentite perché contrarie a disposizioni di legge, a particolari doveri di ufficio o alle norme elementari del costume sociale.
In tal senso si veda Corte di Cassazione Sez. VI 22/10/2002 n. 39685:
“in materia di atti arbitrari del pubblico ufficiale, ai fini della sussistenza dell'esimente di cui all'art. 4 Decreto Legislativo Luogotendenziale n. 288 del 1944, non basta che il pubblico ufficiale ecceda dai limiti delle sue attribuzioni, ma è necessario altresì che tenga una condotta improntata a vessazione, sopruso, prevaricazione, prepotenza nei confronti del privato destinatario”.
Si tratta in altre parole di atto compiuto coscientemente e volontariamente per arrecare danno, o provocare comunque un’ingiusta sofferenza o comunque accompagnato da modalità non consentite dall’ordinamento.
Un altro orientamento giurisprudenziale (Cass. sez. VI 21/11/2005 – 19/1/2006, Carbone) invece ritiene sufficiente che l’arbitrarietà dell’atto, quale “manifestazione di un atteggiamento psicologico improntato a prepotenza, sopruso, capriccio, malanimo” traspaia da connotazioni oggettive dello stesso atto, sia ravvisabile cioè dall’esterno, percepibile da un “osservatore avveduto” senza che sia necessario dimostrare che le connotazioni che rendono arbitrario l’atto siano state coscientemente volute dal pubblico ufficiale.
In questo modo, da un lato viene attribuito il giusto rilievo alla posizione del soggetto privato “per coglierne la proiezione psicologica nella dinamica della condotta incriminata”, dall’altro non è più necessario accertare l’atteggiamento psicologico del pubblico ufficiale, atteggiamento che è “difficile da identificare da parte del soggetto privato”.
L’arbitrarietà del comportamento del pubblico ufficiale considerato obiettivamente giustifica, “in analogia allo “stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui” (art. 599 comma 2 c.p.) la reazione immediata da parte di chi detto atteggiamento subisce e ne avverte la profonda ingiustizia” Così è stato ritenuto arbitrario l’operato di alcuni Carabinieri che sospettando che il ricorrente, persona sottoposta alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno in un dato Comune, avesse violato il divieto di allontanarsi da quei luoghi lo avevano dapprima accompagnato in caserma per accertamenti e poi, dovendo occuparsi di incombenze di servizio
ritenute più urgenti lo avevano “temporaneamente ammanettato”, quindi “sostanzialmente arrestato” trattenendolo nell’atrio della caserma.
Riuscito con una scusa a farsi levare gli strumenti di contenzione il ricorrente si era dato alla fuga spintonando i militari che cercavano di trattenerlo.
La S.C. ha ritenuto in questo caso arbitrario il comportamento dei P.U. e operante la scriminante de qua in relazione al contestato reato di resistenza a P.U.
Nella motivazione viene ricordato come “l’istituto della reazione legittima all’atto arbitrario del pubblico ufficiale, introdotto dal codice Zanardelli, poi soppresso dal codice Rocco ed infine ripristinato con il D.Lgs. n. 288 subito dopo la caduta del regime fascista, si ispira alla tutela della libertà morale del cittadino, ossia al riconoscimento della sua reazione psicologica a fronte di una sopraffazione, che ha il diritto di non subire passivamente”.
Così come ritenuto dalla Corte Costituzionale sentenza n. 140/1998) la lettera della legge non impone di “costruire l’arbitrarietà come un quid pluris diverso ed ulteriore rispetto all’eccesso delle attribuzioni”, mentre “può ragionevolmente sostenersi che arbitrarietà ed eccesso dalle attribuzioni esprimano il medesimo fenomeno sotto il profilo, rispettivamente, delle modalità con cui il pubblico ufficiale ha dato esecuzione all’atto illegittimo e della illegittimità dell’atto in sé considerato”, sino alla conclusione che anche un atto conforme alla legge, se compiuto con modalità scorrette o villane, si traduce in un eccesso dai limiti delle attribuzioni e rappresenta un atto arbitrario.
La Corte sottolinea che questa interpretazione è in linea con le norme che disciplinano i rapporti tra pubblici impiegati e cittadini, con le ragioni storico politiche che hanno indotto il legislatore a reintrodurre l’esimente in parola e con gli interventi della Corte Costituzionale (in particolare la sentenza n. 341 del 1994) volti a rendere le norme del codice penale sui delitti dei privati contro la pubblica amministrazione compatibili con l’assetto dei rapporti tra autorità e cittadini propri di un ordinamento democratico: “alla luce dei valori espressi dalla nostra Costituzione, il rapporto tra amministrazione e cittadino non deve risolversi in un rapporto autoritario e d’imperio, ma in un rapporto funzionale alla cura degli interessi del cittadino, i cui diritti e la cui dignità, quale che sia il concreto contesto, non devono mai essere mortificati o calpestati”.
Si tratta di principi già espressi dalla Corte in una precedente decisione (Sez. VI 9/3/2004, Maroni) laddove era stato affermato come “per dare un significato normativo all’endiadi “atto arbitrario eccedente dai limiti delle attribuzioni” occorre infatti che l’antidoverosità del comportamento del pubblico ufficiale sia caratterizzata o dalle sue modalità intrinseche (inurbanità, arroganza,maleducazione e quant’altro) o dal suo sviamento rispetto allo scopo di pubblico interesse per il quale è dall’ordinamento previsto l’esercizio di poteri autoritativi” (nella specie si trattava appunto di uno “straripamento dei poteri dell’autorità giudiziaria”).
La Corte aveva in quel caso risposto positivamente al quesito “se l’illegittimità dell’ordine (di perquisizione di una stanza adibita a segreteria politica di un parlamentare e, come tale protetta dalle immunità previste dall’art. 68 della Costituzione, n.d.r.) si estenda anche alla esecuzione di esso sì da rendere arbitrario il comportamento degli operanti” e pertanto operante l’esimente di cui all’art. 4 D. Lg. Lgt. 288/1944 anche nel caso in cui gli agenti materiali “non potevano che essere in buona fede”.

4. Il Collegio ritiene preferibile in linea di principio quest’ultimo orientamento giurisprudenziale.
Decisivo in tal senso appare il rilievo da attribuire alla percezione dei fatti e del comportamento del pubblico ufficiale che in concreto abbia l’agente perché è questa percezione che viene in rilievo in sede di giudizio sul disvalore sociale della conseguente condotta.
Come rileva la Corte nella decisione Carbone, la scriminante in parola non si atteggia diversamente dalla provocazione prevista nei confronti dei delitti contro l’onore dall’art. 599 comma 2 c.p., si tratta di una reazione immediata a quella che viene ritenuta una “profonda ingiustizia”.
Si aggiunga che l’accertamento del concreto atteggiamento psicologico del pubblico ufficiale, quale manifestazione di prepotenza, capriccio, sopruso o malanimo, si lascia difficilmente compiere non solo da parte del privato al momento dei fatti, ma anche in sede dibattimentale perché davanti al giudice i due interessati rivestono ruoli completamente diversi, hanno diversi obblighi e facoltà in ordine alle risposte, le quali pertanto sono in linea di principio munite di un diverso grado di attendibilità.
Si può osservare ancora, da un punto di vista sostanziale, che insistere sulla necessità di provare che l’atteggiamento del pubblico ufficiale sia volutamente caratterizzato da capriccio, malanimo, dispetto, sopruso, ostilità, derisione o prepotenza, così come richiesto dalla giurisprudenza maggioritaria, pare avere la conseguenza di dimostrare non solo la connotazione dell’arbitrarietà ma anche quella dell’abusività dell’atto.
In altre parole gli elementi necessari, secondo la parte maggioritaria della giurisprudenza, a fondare la scriminante in parola appaiono anche sufficienti a dimostrare l’esistenza degli estremi oggettivo e soggettivo di uno o più reati da parte del pubblico ufficiale, quale ad esempio l’abuso d’ufficio mediante danno ingiusto altrui, art. 323 c.p. o a seconda dei casi i reati di arresto illegale, art. 606, di perquisizione e ispezione personali arbitrarie, art. 609 c.p. o altri concernenti più direttamente l’incolumità della persona.
La conseguenza che se ne dovrebbe trarre è che gli elementi ritenuti necessari per fondare la scriminante de qua contemporaneamente potrebbero essere tali da renderla superflua, perché a fronte di un reato commesso dal pubblico ufficiale sarebbero invocabili a tutela del privato altre cause di giustificazione, come la legittima difesa, che appaiono di portata certamente più ampia quanto alle condotte giustificate di quella dell’art. 4 D.Lgs 288/1944.
Per questo appare necessario, nel verificare l’eventuale applicabilità della causa di giustificazione dell’art. 4 suddetto, considerare oggettivamente, dall’esterno, il comportamento dei pubblici ufficiali interessati, per accertare se un “osservatore avveduto” potesse in questo scorgere i requisiti dell’arbitrarietà dell’atto di cui si è detto.
In altre parole la reazione deve essere considerata legittima non solo quando l’atto è arbitrario, ma anche quando, ragionevolmente, oggettivamente, appare arbitrario.
Ciò rilevato in linea di principio, si deve aggiungere come la distinzione tra le due impostazioni dommatiche circa la natura dell’arbitrarietà dell’atto del P.U. tende in uno dei casi qui esaminati a perdere importanza, trovandosi diversi elementi di carattere indiziante circa l’effettiva sussistenza in alcuni degli operanti della volontà di agire con modalità che andavano ben oltre l’inurbanità, l’arroganza e la maleducazione per raggiungere e superare la soglia della consapevolezza di commettere una vera e propria prepotenza.

5. La condotta tenuta dal privato che viene giustificata è solo quella che viola le norme espressamente e tassativamente indicate nell’art. 4 D.L. Lgt. 288/1944.
Così la giurisprudenza dianzi citata pur riconoscendo l’esistenza della causa di giustificazione relativamente al reato di resistenza a pubblico ufficiale di cui all’art. 337 c.p. non la estende al connesso reato di lesioni personali, provocate al pubblico ufficiale mediante l’atto integrante la resistenza, né a reati che offendano diversi beni giuridici.
Le condotte così giustificate possono essere violente (articoli 336, 337, 338 e 339) o anche solo oltraggiose (articoli 342 e 343, dopo l’avvenuta abrogazione del reato di oltraggio di cui all’art. 341).

6. Per trovare giustificazione nella norma de qua la condotta del privato deve costituire una “reazione” necessitata all’atto arbitrario.
Per quanto non venga espressamente disposto la condotta deve pertanto essere immediatamente successiva all’atto arbitrario, a questo deve essere legata casualmente, rispetto ad esso deve essere “proporzionale”.
Con l’atto arbitrario il pubblico ufficiale lede o appare ledere consapevolmente in maniera grave un diritto del cittadino, sia esso all’incolumità personale, alla libertà o alla estrinsecazione della propria personalità nelle forme riconosciute e garantite dalla legge.
La reazione legittima a questo atto arbitrario non può travalicare i limiti necessari a difendere il proprio diritto e ad allontanare da esso l’offesa costituita dalla condotta arbitraria di chi in quel momento rappresenta il potere pubblico.
La violenza consentita al privato è in altre parole solo quella minima integrante i reati di cui agli articoli 336 e seguenti del codice penale e non quella ad esempio che provochi lesioni personali al pubblico ufficiale.
Il criterio della proporzionalità, il legame temporale “immediato” tra offesa e reazione pongono dei limiti giuridici molto precisi alla condotta così “legittimata” del cittadino.
La ragione è molto semplicemente da cercare nel principio generale della supremazia della legge e dello stato di diritto, per cui a nessuno è concesso di farsi giustizia da sé neppure di fronte ad un’offesa portata ingiustamente ad un proprio diritto.
In altre parole di fronte ad un atto arbitrario di un pubblico ufficiale che assuma caratteristiche violente, il cittadino ha diritto di difendersi anche con la violenza per non soccombere.
Però, una volta che l’atto arbitrario del pubblico ufficiale sia venuto meno, una volta cioè che questi abbia desistito dall’aggredire un diritto altrui, il cittadino non può più legittimamente continuare in una condotta violenta contro il pubblico ufficiale.
La sua condotta, infatti, a questo punto si trasformerebbe a sua volta in un’aggressione, in una vendetta o azione esclusivamente punitiva interdetta a chiunque.
7. Così si vedrà essere molto diversa la situazione giuridica di chi reagisce nei confronti di pubblici ufficiali che, a bordo di un veicolo blindato inseguono i manifestanti a piedi mettendone in pericolo l’incolumità da quella di chi assale i medesimi pubblici ufficiali chiusi all’interno del medesimo blindato una volta che questo per una panne si trovi fermo in mezzo alla pubblica via, isolato dal resto del contingente, ormai in balia dei manifestanti ma soprattutto sia immobile, non in condizione di costituire più una qualche minaccia nei confronti di coloro che da aggrediti si trasformano ormai in aggressori.